IL GUSTO INGORDO DI MANGIARE CON LE MANI

Avevo letto della trasmissione di Radio 24 forse di un anno fa avvenuta un sabato di marzo, organizzata da Davide Paolini il gastronauta per il So-le 24 ore, coi ristoratori di fama e giornalisti e psichiatri (?), sull’uso di mangiare con le mani, chiamato “nuova moda americana”.
Da tempo immemorabile, Zeus e Giove con tutti gli dei e anche noi, conviviamo con questo modo un po’ ingordo ma certamente genuino di mangiare “scota deo”, cioè da scottarsi le dita, che sottintende un gesto rapi-do di comodità mangereccia.
Apprezzare l’assaggio di una fetta di salame fresco “de casada”, del prosciutto (di Montagnana) o di un pezzo di mortadella tagliata a coltello dai “Naneti” in vicolo Broli, l’assaggio di formaggi e croste di grana al mercato da Zucchello, un primo boccone al salto di una salsiccia calda, le foglie carciofo delle “mame” romane inzuppate su uova fresche della Bianca schiacciate e condite d’olio da Calcata del prof. Portoghesi, le polpette (di cui scriverò) che papà chiamava “operazione mistero”, ritagli di pollo fritto della Susy in piazza Trentin con pane grattugiato, l’aletta di pollo fritto ora di moda, o un modo migliore di “speo” di conoglio/maiale/quaglia, il cinghiale ad Anghiari da Lippi, la testa da succhiare del maiale e pure dell’oca con oc-chi e cervella, il mezzo uovo con la cipollina, gli sfilacci di carne equina, le frattaglie con ali e “sate” e collo col sugo, cuore/durelli/fegati, ma ancor meglio un taglio di porchetta col suo grasso in piazza sopra pane caldo o abbrustolito sul-la piastra al Caffè Beltrame.
E poi il pesce con vongole, cappe e caperozzoli, “capeonghe e bogoi”, “moeche”, i datteri, l’ostrica cruda da “Talian” a san Pietro in Volta, la sardea “frita”, una buona trota, ecc. Con le mani da sempre si mangia la frutta, i dolci e il panettone, il mandorlato, ecc. Questo è il “finger food” di Tomasi del Corriere?
Ho ricordi di quando, arrivato a casa di domenica dopo mezzanotte, mettevo le mani dentro la pignatta del lesso semifreddo, per un morso avido del tasto col filo grasso, e pure le ditate per il baccalà appena mantecato dalla soella, per la maionese fatta in casa e il purè e le vecchie marmellate, senza discutere la manualità per le tartine, e per la pizza (che non ho mai mangiato). Il nostro mangiare era sostanziale, oggi si direbbe umile, ma il lardo e la pancetta, la mortadella, gli ortaggi e l’insalata dela campagna, le erbe cotte, le frattaglie, le frittate, ecc. erano il cibo quotidiano. Poi il cotto con “pestarei”, i risotti, il fritto, il pesce di venerdì (baccalà o trote, sardine e bisate), la bistecca semplice, i crostacei e i frutti di mare, il grande bollito domenicale, gli arrosti, l’occasionale selvaggina, le conserve fatte in casa come i dolci, la frutta raccolta direttamente dalla pian-ta, l’anguria ad agosto, ecc.
Qualcosa avrò dimenticato, perché dimenticati completamente sono oggi i nostri antichi piatti. Anche le cene con gli amici seguivano quel filo ordinario delle nostre mamme, niente cuochi o chef. Inventavamo cene soltanto a tema unico come il baccalà alla vicentina completato dai formaggi che Zucchello vendeva, el cain de “folpi” di Piero Peron alle fiere dai più piccoli ai più grossi con grandi tentacoli (15 ne ho mangiato una volta), el “porsel” di tutto e tutti dalla Rina a Merlengo, l’oca “rosta” ad ottobre col risottino di fegatini, che ancora oggi ripetiamo, il cinghiale da Giancarlo Lippi ad Anghiari con amici rugbysti milanesi e romani. Tanti anni fa il mio “socio” Tino Busato aveva accompagnato una squadra di giovani rugbysti di Casale sul Sile fuori provincia per una partita, col premio della cena in ristorante al ritorno.
Quando è il secondo piatto con la bistecca milanese, improvviso il silenzio, tutti con i gomiti sulla tavola, muso alla cotoletta, muti e immobili. Al suo richiamo “magnè come ve ga insegnà vostra mare”, il cibo a due mani fu divorato allegramente in pochi minuti.
Non sono certamente gli americani ad averci insegnato l’uso delle mani, perché il gusto goloso e autentico dell’ossada dalla Rina a Merlengo o da Diego al Combai, dei sciosi di Renato Stefani e di Sandor Peron a casa del “Possa” solo col contorno di sedani e carote intere, sono per noi gioiosi appuntamenti annuali con le mani, assieme al nostro vin merlot di cui si può berne una botte. Forse anche per questi motivi sono stato nominato il primo “Santo Mangiatore” con la benedizione di Helenio Herrera e Mariannini nell’antica osteria di Paolo Zanatta, dopo di me Paolo Trevisi, Domenico Stellini, Dino De Poli, Virgilio Scapin di Vicenza, Patuelli di Oderzo.
Quando si andava a ballare alla “Lanterna” di Mirano, nel breve intervallo dell’orchestra, si usciva ad una vicina stanzetta/magazzino dove “Ciccio” Covin preparava sopra rotondi tavolini i panini di formaggio e mortadella, e bottiglie di vino rosso in piedi.
Portavamo le nostre ragazze per ripetuti assaggi di “caviale e champagne”, sempre ben accettati. “Ciccio” più tardi aprì la trattoria “19 al Paradiso” ed eravamo sempre invitati alla “corsa dell’oca” coi pennuti per strada guidati dai paesani in costume, bellissima gara seguita da un doveroso eccellente e ricco pranzo dell’oca “rosta”. E poi d’inverno a fine gennaio nei “giorni della merla” l’abbuffata del maiale, io fra i diciannove del ”Ordine della Merla-Miran” ho partecipato a tutti gli obblighi del palato nelle cene della trattoria, col nostro tabarro della merla ricamato da Sandro Zara.
Ed è un buon mangiare succhiandoci le mani col “sangueto” e la “martondea”, il “radicio” rosso col lardo, il brodo di verze, i “fasioi coea codega”, i gnocchi col sugo del “porsel”, le costesine in “tecia coe verse”, il “museto che peta col purè”, ecc. ecc.
Per non dimenticare l’oca al Mondragon di Tarzo (Tv), da Roberto e Augusta colla figlia Manuela dove mangiare l’oca e il “porsel” diventa religione. Provare per credere!
I nostri appuntamenti mangerecci sono stati negli anni: “All’Oca Bianca”, “Taverna Fiorentina” a san Parisio, “Muscoli’s”. “Beccherie”, da “Cesira” a Silea, “dall’Orlandina” in pescheria, “Arman”, “Al Sole”, “Rina Marchi” a Merlengo, “al Gallo” dall’Antonietta a Quinto, “Busatto”, “Condulmer”, “Alfredo”, “Albertini”, “Menegaldo”, “Bosa”, “da Giovanni” a Padova, “Alpino” a San Palè, “19 al Paradiso” a Mirano, “da Celeste” a Venegazzù, “Schiavon” a Falzè, “Procida”, “da Sergio” a Paderno, “al Bassanello”, “alla Moncia”, “da Dino”, “da Gigetto”, “da Lino” a Solighetto, “al Contadin” a Combai, “L’Incontro”, “Antica Osteria Zanatta”, “Nea” a Porto Fiera, da Giovanni “Locanda di via Brandolini”, ecc.
Si poteva mangiare con forchetta e coltello? C’era sempre un “signorino” educato in collegio (?), non della nostra compagnia, ma lo guardavo con una certa apatia.

di Giorgio Fantin