“IL BALUARDO DELLA SERENISSIMA”

LA STORIA DELLE MURA TREVIGIANE

Le mura di Treviso verranno restaurate. E quella che si prepara è la più importante operazione di maquillage da quando sono state realizzate.  Cioè nei primi anni del Cinquecento. Per conoscere la storia e le vicende di questo periodo il giornalista e storico Sante Rossetto ha dato recentemente alle stampe con l’editrice Canova il bel volume “Il baluardo della Serenissima”. In 250 pagine l’autore analizza le motivazioni storiche che stanno all’origine di questa imponente opera. Cioè il periodo bellico noto guerra di Cambrai (1509-1517).
Occorre intrecciare una panoramica politica europea del tempo per comprendere che cosa sta alla base di questa costruzione. Che suscitò la meraviglia dei contemporanei che giudicavano Treviso la più bella fortezza d’Italia.  Siamo agli inizi del XVI secolo. Venezia è all’apice della sua potenza militare e commerciale nonostante avesse dovuto affrontare due guerre contro il nuovo nemico: i Turchi. La Serenissima aveva occupato alcuni porti della Puglia, si era annessa la città di Cremona nel 1499, stava conquistando buona parte della Romagna (regione fondamentale per procacciarsi il preziosissimo sale), nel 1508 aveva umiliato l’imperatore Massimiliano I conquistando il Cadore, Trieste, Gorizia, Gradisca e Fiume. Sollevando non soltanto l’invidia degli altri Stati italiani, ma anche non poca paura. Perchè ormai si vociferava che Venezia avesse un programma politico che prevedeva la conquista di tutta la penisola.
I nemici erano molti e ben agguerriti. L’imperatore voleva la terraferma perché – sosteneva e pretendeva – era territorio dell’impero. Cioè suo. La Francia aspirava a conquistare la Lombardia veneta (Brescia, Bergamo, Crema e Cremona), il Papa, il combattivo e poco religioso Giulio II, voleva i suoi domini di Romagna in mano veneziana, il re di Spagna i porti della Puglia. Ma non era ancora tutto, perché Ferrara e Mantova si erano schierate contro la Repubblica temendo che il prossimo boccone della Dominante fossero proprio le due città.
E allora ecco nascere una coalizione di questi Stati che fu concretata nel dicembre del 1508 in  un patto di alleanza, nella città francese di Cambrai, per aggredire Venezia. I diplomatici veneziani pensavano, tuttavia, che quella coalizione non potesse aver futuro perché gli interessi di questi alleati erano contrapposti. E giudicavano che presto si sarebbero combattuti tra di loro.
Ma non fu così almeno per i primi tempi. E la guerra scoppiò. L’esercito veneziano, composto da circa 30 mila uomini, si opponeva a quello francese di poco più forte. Per dissidi e malintesi tra i comandanti serenissimi, Niccolò Orsini e Bartolomeo d’Alviano, i francesi riuscirono ad attaccare metà dell’esercito veneto ad Agnadello (14 maggio 1509) con una pesante sconfitta per le truppe dell’Alviano che ne uscirono decimate.  A Venezia i senatori erano incapaci di organizzare una efficace resistenza.
Nelle città di terraferma i nobili locali insorsero contro Venezia che aveva ridimensionato il loro potere. In ciascun centro fu istituito un governo cittadino favorevole all’imperatore.
E lo stesso stava per accadere anche a Treviso, che era l’unica città che non aveva dato il suo appoggio ai vincitori. Le vicende trevigiane dei primi giorni di giugno non sono chiarissime. Ma su una cosa non ci sono dubbi: i trevigiani in massa (e su tutti il popolino devotissimo alla Serenissima di cui amavano il buon governo) optarono per la fedeltà a San Marco. Il rappresentante veneziano che si

Sante Rossetto

trovava in città ebbe le lacrime agli occhi ringraziando l’amore dei trevigiani per la Serenissima, che da quel giorno chiamò affettuosamente la città del Sile “il nostro occhio destro”.

Ma questa decisione aveva delle conseguenze pratiche. Come difendere il capoluogo che si trovava praticamente senza mura perché quelle scaligere, che risalivano alla prima metà del Trecento, erano cadenti e costruite con il sistema piombante? Che significava alte e sottili per respingere gli assalti all’arma bianca giacché archibugi, bombarde, falconetti e altre armi da fuoco non esistevano ancora.
Bisognava creare ex novo una linea difensiva in grado di respingere l’attacco dei cannoni. Fu chiamato uno dei geni della Repubblica, l’architetto, nonché idraulico, frate Giovanni Giocondo da Verona. Che era ormai avanti con gli anni, verso gli ottanta, ma aveva una mente lucidissima. Come difendere Treviso? “Con l’acqua” disse il religioso. A sud scorreva il Sile che non era facilmente superabile mentre a nord c’era il Botteniga. Per rendere questa fortezza inattaccabile bisognava fare una “spianata”, quindi liberare per mezzo miglio (quasi 900 metri) tutto intorno alle nuove mura il terreno da ogni costruzione. Di conseguenza case, chiese, monasteri, piante, alberi vennero sistematicamente eliminati. In una parola “fato neto”.
E non era una distruzione di poco conto. Perchè i borghi cancellati furono nientemeno che otto, tanti quanti se ne distendevano da otto delle undici (e forse più) porte della vecchia cinta.   Così se il nemico avesse avuto la balzana idea di attaccare i difensori potevano allagare tutta la spianata con l’acqua del Botteniga bloccando il corso d’acqua prima che entrasse in città. Soldati, buoi e cavalli che trascinavano i cannoni sarebbero impantanati. E poi c’era la difesa delle nuove mura. I lavori iniziarono il 9 luglio del 1509. Tutti (cittadini, uomini, donne, frati e preti inclusi), faticarono lungo le tre miglia su cui si stava erigendo la costruzione.
 Il nuovo sistema per affrontare le artiglierie prevedeva la difesa radente.
Le mura non erano alte, perché non occorreva più scalarle, ma basse e larghe dieci e più metri in grado di respingere qualsiasi palla di cannone. Ai primi giorni di quell’autunno la nuova muraglia era pronta per la difesa. Delle undici porte che permettevano l’entrata delle vecchie mura, ne restarono attive solo tre. Quelle che ci sono anche ora: la Altinia (ora praticamente scomparsa che si trovava poco lontano dall’attuale stazione ferroviaria), la Santi Quaranta e quella di San Tommaso che fu completata nel 1518.
Secondo i comandanti di allora per difendere la città occorrevano almeno quattromila uomini appoggiati da una cinquantina di bombarde e cannoni di varia foggia.  All’interno della muraglia era stato tracciato un anello tutt’attorno la città della larghezza di una trentina abbondante di metri per le esigenze militari. Sotto lo strato superiore delle mura sono state costruite le casematte per le munizioni e la polvere pirica. Va ricordato che per sparare un colpo occorreva qualche chilo di polvere. Quindi le riserve dovevano essere abbondanti.
I trevigiani erano orgogliosi della loro nuova città. Dietro quell’ammasso di terra, sassi e pietre si sentivano sicuri. Di acqua non avevano penuria (il sottosuolo cittadino del tempo ballava letteralmente su uno strato liquido).
Chi avesse avuto la pazza idea di assediare Treviso sarebbe stato impossibilitato per la lunghezza di tempo richiesta dalle operazioni. Giacchè non era affatto facile mantenere soldati e animali per lunghi giorni o mesi. Tuttavia un accenno di assedio ci fu i primi giorni di ottobre del 1511 con l’esercito franco-imperiale comandato da La Palice. Il quale, da esperto capitano, ispezionata (dall’esterno e a debita distanza) la roccaforte sentenziò che non era possibile attaccare Treviso. Qualche giorno dopo se ne andò. E con lui tutto il suo esercito.
I trevigiani respirarono e tornarono a vivere tranquilli. Nel 1513 a Treviso arrivò anche Bartolomeo d’Alviano cui è dedicato attualmente il viale delle mura. Era costui uno dei più temuti capitani di ventura. Fatto prigioniero ad Agnadello, era stato condotto prigioniero in Francia dove fu trattato con ogni riguardo vista la fama e la stima che lo circondavano. Morto Giulio II (febbraio 1513), l’Alviano, liberato dal re di Francia nuovamente alleato con Venezia, tornò a guidare l’esercito veneto. Fu anche lui, accanto a frate Giocondo ricordato in un attuale varco, a dare l’aspetto attuale alle mura, con i bastioni e i baluardi che permettevano alle artiglierie il tiro incrociato.
La guerra di Cambrai si concluse il 24 gennaio 1517 con la riconquista dell’ultima città in mano nemica, Verona. La terraferma era stata salvata, ma le perdite della Serenissima non erano state poche. E da allora è iniziato il suo lento declino.
Le nostre mura sono rimaste lì, austere e portatrici di sicurezza. Anche i podestà che si susseguivano alla guida della città dovevano lamentarsi che il degrado non mancava. Lo sviluppo urbanistico fu bloccato fino al primo Ottocento. Ai primi anni del Novecento ci fu una lunga diatriba, durata almeno un paio di decenni, sul futuro di quella cerchia. La vogliamo abbattere oppur conservarla come memoria storica? Prevalse l’opinione di quelli (tra cui il vecchio abate Bailo) che le volevano conservare. Con una modifica per venire incontro alle esigenze moderne: praticare dei fori attraverso cui uomini, carri, biciclette e soprattutto auto potessero entrare. E così le mura, o almeno una buona parte, sono rimaste vive. Come possiamo ammirare ancora oggi.
Tutto questo e molto altro, per chi vuole conoscere la storia di casa, nel documentato saggio “Il baluardo della Serenissima”.
Buona lettura.
di Giampaolo Zorzo