Museo di macchine fotografiche a Ponzano. Preziosa eredita’ di Ettore Piovesan

È vissuto ottantotto anni seguendo questo principio: «Fare ciò che ami è libertà, amare ciò che fai è felicità». Ettore Piovesan, scomparso il 15 giugno, ponzanese, è stato uno dei più rappresentativi cittadini del suo Comune. La sua vita merita un libro. E, infatti, lui lo aveva già scritto qualche anno fa con il titolo “Sessant’anni di fotografia in Venezuela” edito dalla Canova.
Dal suo Comune se ne era andato attorno al 1950 quando di anni ne aveva poco più di una dozzina. E di scuole aveva frequentato, come molti altri coetanei, le professionali. Il padre, Leone, dopo la lunga prigionia bellica, aveva scelto la strada dell’emigrazione. In una terra, allora, nuova che offriva molte speranze. Il Venezuela.
I Piovesan, a Ponzano di via Caotorta, tutti li conoscevano come i “Pitoneto” o anche i “Pitoni”. Progenie numerosa, come tutte le famiglie di quei tempi. Il paese sudamericano allettava gli emigranti con svariate possibilità. Bastava voglia di lavorare e un pizzico di intraprendenza. Così papà Leone, dopo una prima sistemazione, chiama accanto a sé l’intera famiglia. Così l’adolescente Ettore si imbarca per quella terra che diventerà la sua patria di adozione e Caracas la sua città di lavoro. Si arrabatta subito, tirandosi su le maniche come facevano tutti gli emigranti dell’epoca, come carrozziere. Ma un giorno si imbatte in un rappresentante di macchine e apparecchi fotografici. E arriva la svolta della vita. Da quel momento Ettore si dedica alla fotografia. Accanto a lui una ragazza, di nome Anna anche lei emigrante di origine veneta, che lo sostiene in un sogno imprenditoriale che, una volta sposati, riescono a concretare. Nasce da due giovani ventenni l’azienda nota a Caracas come “Laboratorio di fotografia”. Una sfida? Certamente, ma vittoriosa. Il successo è rapido. Ettore e Anna lavorano in simbiosi, affinano la tecnica, apprendono i segreti del mestiere e in poco tempo diventano un punto di riferimento del settore in una città come Caracas in veloce espansione. Arriva il successo per un emigrante che ha saputo trasformare la sua esistenza. Ettore e Anna, che sono diventati genitori di due splendide bambine Patrizia e Gabriela (va scritta secondo la lingua sagnola con una sola “l”), allargano il laboratorio che cresce rapidamente fino a dare occupazione ad una cinquantina di persone. Costruiscono una bella dimora e cominciano a godere il benessere che ha dato il loro lavoro. Ettore, che era uomo di terra, conosce e apprezza il mare tropicale. Ama veleggiare e fare regate. E, visto che gli affari vanno benissimo, si compra un primo veliero. Con cui trascorre il suo tempo libero. Ma non basta perché di veliero ne acquista un secondo, ben più attrezzato e competitivo. Che lo condurrà ad essere uno dei punti di riferimento dell’arte velica venezuelana.
Ma la bella favola ad un certo punto si interrompe. La tecnologia progredisce e la tecnica fotografica del laboratorio Piovesan si trova in difficoltà. Finchè Ettore e Anna decidono di concludere la loro bella avventura.
A questo punto si affaccia la nostalgia della terra italiana. Con la decisione di rientrare a Ponzano dove si costruiscono una casa.
Ettore non è più giovane, ma ha vitalità da dispensare a tutti. Si butta nella vita paesana, suggerisce iniziative. Finchè, nel suo entusiasmo, ha l’idea di realizzare un museo di macchine fotografiche. Durante il suo lavoro in Venezuela se ne era procurate circa quattrocento. Dalla più antica del 1897 alla più moderna del 1990. E regala questo autentico patrimonio storico di valore internazionale al suo Comune intitolandolo alla amata moglie scomparsa all’età di 72 anni e a se stesso. Un museo di cui ogni amministrazione sarebbe orgogliosa. Che Ettore illustrava ai visitatori con una passione quasi apostolica.
Ma poteva non documentare la sua esistenza così ricca e piena di successo? Così nel 2017 esce, per i tipi della editrice Canova, la sua autobiografia con il titolo “Sessant’anni di fotografia in Venezuela”. Libro di successo come era stata tutta la vita di fotografo. Vi racconta i primi anni trascorsi in via Caotorta nella casa dei Pitoneti, le lezioni scolastiche, il viaggio in Venezuela e la sua “cavalcata” imprenditoriale. Il documento testimonia che quando c’è la passione e l’entusiasmo il successo non può mancare.
Non è finita qui perché l’anno successivo gli viene assegnato il premio “Mastro d’oro” per la sua pluridecennale, intensa e significativa attività di fotografo (così recita la motivazione).
Questo riguarda l’esteriorità. Ma Ettore, che chi scrive ha avuto il piacere e l’onore di conoscere più da vicino, era un personaggio straordinario. Uno che – per dirla con termini sportivi – aveva la marcia in più e non si adagiava sui successi che aveva costruito e conseguito. Non era mai stanco di proporre idee, migliorie, iniziative da prendere. Tutto lo interessava. Suggeriva saggi e letture di autori contemporanei non sempre noti, ma che lui aveva compulsato. Pungolava amici e anche autorità su temi che erano di primo piano sulla cronaca. Era un uomo al passo con i tempi e le nuove tecnologie quasi come un adolescente sempre voglioso di imparare. Pur ben radicato nelle tradizioni da cui era uscito. Religioso, non mancava mai alle cerimonie.
A uomini come Ettore, o l’indimenticato padernese Elio Zanata “padre” dell’internazionale Trofeo Bianchin, dovrebbe essere intitolato qualche sito comunale. Uomini che hanno effettivamente operato ben al di là del lavoro quotidiano e hanno lasciato un’impronta duratura. Il loro ricordo non svanirà facilmente. A beneficio di tutta la comunità.

di Sante Rossetto