MONSIGNOR DELLA CASA “Il Galateo”

Tra il 1552 e il 1555 Monsignor Giovanni Della Casa ideò e compose il GALATEO riprendendo temi a lui congeniali, frutto dell’esperienza culturale e mondana acquisita nel suo intenso apprendistato umanistico e in lunghi anni di carriera diplomatica. Nel 1544 fu nominato Nunzio Apostolico a Venezia, incarico particolarmente delicato per i non facili rapporti in materia giurisdizionale fra Curia Romana e Venezia. Difese il diritto del clero, vigilò sul buon andamento del Concilio di Trento e per contrastare le idee protestanti introdusse a Venezia nel 1547 il tribunale della Santa Inquisizione. Il nuovo papa Giulio III però gli revocò la nunziatura veneta, offrendogli la nunziatura in Francia. Contrariato, il Della Casa si ritirò allora, con amarezza, a vita privata soggiornando nell’Abbazia di Nervesa, sul Montello. Qui si dedicò alla stesura del GALATEO indirizzato molto probabilmente al nipote Annibale del quale fu precettore. Dalle pagine emerge un ideale di vita che mira al rispetto della personalità altrui, bandisce ogni atto che possa dar noia ai sensi e all’immaginazione quando ci si trovi con altre persone. Mette in guardia da comportamenti che rischino di apparire sprezzanti nei riguardi degli altri, come la trascuratezza nel modo di vestire o certi atteggiamenti di superbia, ritrosia e svenevolezza. Esorta a evitare, nella conversazione, sia una materia frivola e vile non in grado di interessare gli auditori, che i temi eccessivamente sottili che richiederebbero troppa fatica per essere intesi. Così si rivolge al nipote Annibale: Dal momento che tu inizi il viaggio della vita e, amandoti io assai, ho proposto a me stesso di mostrarti dove, camminando, tu possa cadere o errare, affinchè tu, ammaestrato da me, possa tenere la diritta via con la salute dell’anima tua con lode e onore alla tua nobile famiglia. Comincerò da quello che potrebbe a molti parer frivolo: cioè quello che io penso convenga fare, comunicando con le genti, cioè essere costumato e piacevole e di bella maniera. La convenevolezza dei modi e delle maniere e delle parole giovano quanto la grandezza dell’animo e la sicurezza. Conviene esercitare ogni dì molte volte, essendo a ciascuno necessario favellare con gli uomini ogni dì, per essere apprezzati assai a ragione della piacevole e graziosa maniera. Ti convien temperare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacere di coloro ai quali ti rivolgi. Ciò va fatto con misura perché chi si diletta troppo a secondare il piacere altrui nella conversazione e nelle usanze, pare più un buffone o un giullare adulatore che un costumato gentiluomo. Non è costumato chi tossendo o starnutendo fa si tanto strepito che assorda altrui, spruzzando nel viso a circostanti. E trovasi anche chi sbadigliando urla o raglia come un asino. L’uomo costumato dee astenersi dal molto sbadigliare perché pare che l’argomento e i ragionamenti gli rincrescano. Sbadigliando non solo facciamo segno che la compagnia sia poco di gradimento, ma diamo indizio cattivo di noi stessi, cioè di avere un animo sonnacchioso e addormentato, cosa che ci rende poco amabili. Sconvenevole costume è anche quando qualcuno mette il naso dentro il bicchiere o sulla vivanda altrui. Né porgerai tu a bere altrui quel bicchier di vino al quale tu avrai posto bocca ed assaggiato. A tavola evitate di essere nel brodo abbandonati, senza mai levare il viso e rimuover gli occhi e le mani dalle vivande, con ambedue le gote gonfiate, come se suonassero la tromba o soffiassero nel fuoco. Non trangugiate ma mangiate senza ungervi le dita sì che la tovaglia ne rimanga imbrattata. I servitori che portano i piattelli o porgano la coppa, si astengano da sputare, tossire e starnutire. Quando si favella con qualcuno, non gli si dee avvicinare si da alitargli in viso. Non si dee dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzare. Male fa chi, tratte fuori le forbicine, si dà tutto a tagliarsi le unghie, Dee l’uom stare eretto e non aggravarsi addosso altrui. Ben vestito dee andare ciascuno, secondo la sua condizione e secondo sua età e deve sforzarsi ad accostarsi più che può al costume degli altri cittadini. Non è dunque da opporsi alle usanze comuni, ma secondarli equamente. Ci sono persone prese dalla superbia, che non sanno stimare gli altri, anche se ciascuno appetisce di essere stimato, anche se di fatto non lo merita. Non sta bene adirarsi a tavola, qualunque cosa capiti. Se succede non deve mostrare il suo cruccio. Ci sono coloro che vogliono ogni cosa al contrario degli altri, il che suol fare l’uno nemico dell’altro, generando noia e odio. Anche si disdice assai esser permaloso e lezioso, amando se medesimi fuori di misura e in ciò occupati avere poco spazio per amare gli altri. Nel favellare si pecca in molti e vari modi, quando il tema è troppo frivolo o troppo ricercato, che a fatica si intende dai più. Parlare di Dio con scherno è difetto scellerato. A tavola non si devono raccontare storie malinconiche, né di piaghe, né di malattie né di pestilenze…

Che direbbe Monsignor Della Casa dell’uso del cellulare a tavola quando si mangia con altre persone?

di Cinzia Zanardo