DA SCUOLA “MATERNA” A “INFANZIA”: IL PERCORSO DI SEPARAZIONE E INDIVIDUAZIONE TRA I GENITORI ED IL FIGLIO

E se non fosse così semplice…?

Le parole per segnare il cambio di paradigma. Fino a non molto tempo fa, la scuola frequentata dai bambini tra i tre i cinque anni si definiva “materna”. Ora è chiamata “dell’infanzia”: l’attenzione non è più focalizzata sul prolungamento del legame madre-figlio, ma sul bambino e, conseguentemente, sull’importanza della separazione che permette di avviare il processo di individuazione. Il piccolo non frequenta una scuola che svolge una funzione materna, ma un ambiente concepito per lui.

Questo cambio di prospettiva, solo in apparenza ininfluente, aiuta a meglio inquadrare l’avvio alla scuola dell’infanzia come un passaggio che comporta un nuovo inizio e quindi una separazione. Come tale è sempre atteso e temuto e mai semplice. Tuttavia, non è il primo distacco che vivono genitori e figlio. Il primo lo si vive al momento del parto: per la madre, oltre alla gioia, c’è un “lutto” da elaborare. È la fine della simbiosi assoluta, del fare ogni cosa per il figlio e al suo posto. Con la nascita, il bambino dovrà imparare a fare da solo, prima di tutto a respirare. Per entrambi, è solo il primo di una serie di processi psicologici complessi e faticosi al quale seguiranno, ad esempio, i primi movimenti intenzionali, lo svezzamento, i primi giri sul triciclo… Sono tutti momenti in cui al genitore appare chiaro che il figlio sta crescendo. Ma se da un lato ciò è sorprendente e piacevole, dall’altro suscita una nostalgia per il frugoletto che non c’è più: un sentimento che talvolta, e per alcune persone, può essere così intenso da rendere difficile accompagnare il figlio nella sua crescita.

Anche il passaggio alla scuola dell’infanzia costituisce una separazione dalla situazione precedente, un momento di crescita ed emancipazione in cui la “crisi” è una tappa obbligata che in pochi giorni o settimane si risolve per il meglio. Talvolta, però, non è così: il bambino è disperato, non riesce a separarsi dal genitore e comincia a somatizzare, spesso attraverso il mal di pancia. Anche il genitore, d’atro canto, vive lo stesso dramma: teme il momento in cui dovrà accompagnare il figlio e la sua preoccupazione aumenta quando il piccolo inizia a piangere. Ecco che per il genitore scatta il senso di colpa e, non riuscendo a separarsi egli stesso, trattiene il figlio a sé. Accanto alla difficoltà fisica del distacco c’è quindi anche quella psicologica, tanto che è opportuno chiedersi chi tra genitore e figlio fatichi a separarsi e quanto sia difficile per l’adulto

lasciare il figlio in un luogo nuovo, a persone sconosciute che dovranno prendersi cura di lui. Ma è altresì opportuno chiedersi quanto la paura, la preoccupazione e i dubbi del genitore possano inconsapevolmente pesare sul piccolo, tanto da impedirgli di separarsi dai genitori.

A complicare ulteriormente questo passaggio, indispensabile per la crescita e l’emancipazione del bambino, c’è il senso di controllo, considerato un ideale da perseguire. È il bisogno di sapere ogni cosa: dal “cosa mangia” al “quanto ha pianto” o “quale attività ha svolto”. È l’erronea convinzione che più si è al corrente di ciò che il figlio ha fatto in assenza del genitore più la separazione viene “mitigata” e i genitori si sentono, solo temporaneamente, rassicurati. Ecco che la funzione della scuola dell’infanzia, intesa come opportunità intrapsichica e relazionale di crescita e di scoperta, diventa sempre più difficile perché i bambini per crescere hanno bisogno della fiducia dei genitori, espressa a livello più profondo, non solo verbale. Sentire nel genitore la gioia di veder le conquiste della propria autonomia permette al bambino di provare quella sicurezza in sé necessaria per sperimentare e crescere. Il rischio, altrimenti, è che il piccolo sviluppi dentro di sé la paura di crescere e un senso di incapacità e sfiducia che può pesare nel corso della vita fino a

condizionarla.

Fin qui una lettura delle dinamiche insite nel rapporto genitori-figli che, se non comprese e affrontate in modo corretto, possono generare sofferenze capaci di sedimentarsi negli anni, talvolta con ripercussioni cliniche.

Come vanno affrontati, allora, i disturbi d’ansia e gli stati depressivi, due tra le forme cliniche più comuni di questi condizionamenti? L’ansia, sul piano psicopatologico, si riferisce alla separazione, mentre l’angoscia, sentimento più profondo e destabilizzante, è quasi sempre dovuta alla perdita. Semplificando, potremmo dire che nell’ansia c’è la paura prevalente di perdere le persone o anche gli oggetti a cui si è affettivamente legati, mentre negli stati depressivi queste persone, o questi oggetti, sono inesorabilmente perduti. Anche se in misura diversa, stati d’animo come ansia e depressione determinano una notevole sofferenza e i sintomi che spesso emergono sono un modo per controllarla e ridurne l’entità. Da qui l’importanza, per una crescita sufficientemente equilibrata del bambino, di un supporto al genitore che vive gli stati d’animo sopra descritti.

Quando ci ritroviamo con un pensiero ossessivo o un comportamento di tipo compulsivo, oppure si

manifesta un disturbo fisico che non trova una spiegazione negli esami di laboratorio o nelle indagini strumentali, o, ancora, mettiamo in atto delle azioni che spesso possono essere rischiose o dannose per la nostra salute (episodi di abbuffate di tipo bulimico, atti impulsivi che spesso comportano un senso di vergogna, comportamenti a rischio o di tipo francamente autolesivo etc.), stiamo cercando in qualche modo di controllare l’angoscia. Per quanto questi sintomi possano minare l’equilibrio o la percezione di benessere, per chi li mette in atto costituiscono, momentaneamente, la strategia migliore per proteggersi da uno stato di sofferenza maggiore. L’angoscia è quindi l’espressione più frequente del cosiddetto vuoto interiore.

Intervenire sul disagio psicologico in età evolutiva ha non solo lo scopo di ridurlo ma anche di prevenire l’insorgenza di una patologia clinicamente rilevante anche in età adulta e di cambiare, finché il corso evolutivo ce lo consente, i tratti salienti che costituiranno nel tempo la nostra struttura di personalità.

L’ultima occasione in tal senso la possiamo cogliere in tutti quegli adolescenti che sempre più di frequente esprimono un disagio che costituisce spesso una inascoltata, quanto disperata, richiesta di aiuto.

Nelle patologie degli adulti si potrà ritrovare comunque un equilibrio sia con una riduzione dell’impatto emotivo dei sintomi con una terapia farmacologica sia cercando di aumentare con una buona psicoterapia la capacità di tollerare la sofferenza attraverso la comprensione del suo senso e delle sue cause.

Elena Stefani

Psicologa e psicoterapeuta

Francesco Bova

Psichiatra